A un mese dalle elezioni europee di giugno, in campagna elettorale si parla poco di alcuni temi cruciali per la politica europea. Quali priorità detteranno il prossimo bilancio dell'Unione? Gli obiettivi della competitività e della riduzione delle disuguaglianze si insidieranno a vicenda? Quanto l'esperienza del PNRR segnerà il futuro della Politica di Coesione? A Bruxelles il lavoro tecnico è già in corso e, secondo il direttore della DG REGIO della Commissione, Nicola De Michelis, il ruolo delle regioni nella prossima stagione dei fondi strutturali europei non è affatto scontato.
Bruxelles pubblica la nona relazione sulla Politica di Coesione
Il rapporto del gruppo di alto livello e la nona relazione sulla Politica di Coesione pubblicati nelle scorse settimane dalla Commissione europea, da cui prende le mosse la conferenza sul futuro della Coesione, organizzata il 6 maggio dalle istituzioni europee in Italia con la collaborazione di FASI, sono parte del processo che condurrà alle proposte per la Politica di Coesione 2028-2034, attese nella primavera/estate del prossimo anno.
Una politica che, pur con i suoi limiti, è stata lo strumento principale del “salto gigantesco compiuto in questi anni dai paesi di più recente adesione per arrivare a livelli di benessere che sono comuni a tutta l'Europa”, ricorda il capo della Rappresentanza in Italia della Commissione europea, Antonio Parenti, e lo strumento chiave per garantire “la coesione sociale e territoriale in un mercato interno con delle disparità molto forti”, sottolinea il direttore del Parlamento europeo in Italia, Carlo Corazza. Allo stesso tempo, avverte Corazza, le sfide di competitività, al centro dei rapporti commissionati a Letta e a Draghi, richiedono sforzi ulteriori di cui la Coesione da sola non può farsi carico e impongono di chiedersi se non sia necessario rendere permanente il Recovery and Resilience Facility.
De Michelis (DG Regio), la prossima Politica di Coesione potrebbe non passare per le Regioni
Le pressioni sul prossimo bilancio europeo saranno enormi, “da un lato per l'emergere di nuove priorità - la difesa, la migrazione - sempre più pressanti, dall'altra perché l'Europa dovrà restituire il debito che ha permesso di finanziare il Next generation EU, che a partire dal 2030 rappresenterà qualche decina di miliardi di euro e creerà ulteriori pressioni sul bilancio per continuare a finaziare le politiche tradizionali e servire le nuove grandi priorità con risorse adeguate”, sottolinea il direttore della DG Regio, Nicola De Michelis.
Dentro questo quadro, De Michelis individua due grandi tensioni che determineranno il nuovo assetto della Politica di Coesione: da una parte, gli obiettivi, dall'altra, il governo delle risorse.
Sul primo fronte, se resta vero che “una comunità non tiene, se alcuni suoi membri hanno dei dubbi sull'interesse collettivo a migliorare gli standard di vita di tutti i membri di quella comunità”, ricorda De Michelis parafrasando l'ex commissario George Thomson - e quindi la Coesione resta necessaria per offrire opportunità ai luoghi e alle persone e per garantire quello che Letta ha chiamato “il diritto a restare” - è anche vero che a Bruxelles sta emergendo una tensione tra “la necessità di grandi interventi sulle priorità strategiche e “la necessità di una politica redistributiva”.
E questo conduce alla seconda tensione, quella relativa alla governance. La spinta a ridimensionare una politica che assorbe un terzo del bilancio pluriennale europeo, e i cui benefici non sono unanimemente riconosciuti, a vantaggio di altre priorità non è infatti nuova. Basti ricordare il dibattito che ha accompagnato il negoziato sul Quadro pluriennale finanziario 21-27, presentato all'indomani della Brexit e con molte delle attuali sfide già sul terreno. Già allora si parlava di tagliare Coesione e PAC per investire di più in nuove priorità - ricerca, digitalizzazione, sicurezza delle frontiere - e il tema della difesa, oggi esploso per le drammatiche vicende degli ultimi due anni, era già presente, traducendosi nella stabilizzazione del Fondo europeo per la difesa, che la Commissione Juncker aveva lanciato con un piccolo budget solo in via sperimentale.
Quello che cambia rispetto a quelle spinte è che, non solo le pressioni sull'Unione si intensificano e accelerano, con le crisi geopolitiche e l'attivismo degli altri player globali in corsa per la leadership nelle tecnologie digitali e per la decarbonizzazione, ma sopratutto oggi – sottolinea De Michelis - c'è un alternativa: il Recovery Resilience Facility, con il suo modello legato a performance, target, mix di riforme e investimenti, cronoprogrammi stringenti e gestione centralizzata.
E quindi, De Michelis sintetizza: “non c'è dubbio che ci sarà una politica di investimento cofinanziata dal bilancio europeo e che avrà una forte componente redistributiva, sono abbastanza convinto che questa politica avrà un legame fortissimo con il semestre europeo e le riforme strutturali, abbastanza convinto che si sposterà da rendicontazioni a costi reali al raggiungimento di obiettivi”, mentre “quello su cui ho dei dubbi è quanto questa politica avrà una dimensione regionale”.
E questa incertezza, secondo De Michelis, riguarda almeno due aspetti:
- la distribuzione delle risorse, oggi fatta dall'Europa, e che invece potrebbe diventare oggetto di un negoziato bilaterale tra Bruxelles e capitali europee;
- il ruolo delle regioni nel disegno, nell'attuazione dei fondi e nell'interlocuzione con la Commissione, cui potrebbero subentrare i governi che negoziano direttamente i programmi con Bruxelles come nel PNRR.
Il punto di vista di istituzioni e stakeholder sul futuro della Coesione
Nelle due tavole rotonde della conferenza, rappresentanti di istituzioni, accademia e imprese hanno messo a tema i tanti nodi del dibattito.
Alcuni hanno sottolineato che la Coesione è uno strumento sì da manutenere, ma soprattutto da mantenere. Anzi “lo strumento dell'Unione”, come sottolineato da Francesco Tufarelli, direttore generale presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, mentre il PNRR rappresenta un'invenzione importante che ha permesso di affrontare la crisi pandemica diversamente da come abbiamo affrontato la crisi dei debiti sovrani. Sulla stessa linea Raffaele Torino, professore di Diritto e Politiche della UE dell'Università Roma Tre, secondo cui la Politica di Coesione pesa un terzo di un Quadro finanziario che comunque vale meno dell'1% del PIL dei 27, ma è anche la politica che “riflette il mandato dato all'Unione europea dai popoli europei: migliorare la vita dei cittadini, non facendo le guerre e attraverso il mercato unico, che non può essere approfondito senza una politica redistributiva”.
Fondamentale, secondo Giovanni Vetritto, direttore generale presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, è però rimettere al centro dei lavori sulla Coesione il tema della convergenza del Pil tra le diverse aree: “oggi si parla di tutto: il tiraggio, il rapporto tra riforme e investimenti, dialettiche tra livelli di governo”; ma poco del fatto che “nella stagione 2007-2013 avevamo ridotto le regioni meno sviluppate a quattro, poi cinque nel ciclo successivo, e ora sono sette”. Un richiamo condiviso da Ugo Fratesi, professore di Economia e Politiche Regionali del Politecnico di Milano, secondo cui è necessario “rifocalizzarci sullo sviluppo e su non usare la Politica di Coesione come un bancomat”, con cui tamponare le situazioni di crisi; nonchè tenere presente che la stessa transizione green, se non accompagnata, rappresenta una minaccia alla coesione perché i costi degli obiettivi globali di decarbonizzazione non sono gli stessi per tutti.
La Politica Coesione ha però per definizione questo doppio sguardo, alle condizioni abilitanti la crescita nel lungo termine e insieme al finanziamento di progettualità ritenute strategiche. Lo racconta Daniela Ferrara, responsabile del coordinamento per l'attuazione del POR FESR e FSE Emilia Romagna, secondo cui la Coesione ha rappresentato per le regioni un metodo di definizione e di valutazione delle politiche e, allo stesso tempo, con strumenti come la Strategia di specializzazione intelligente, ha permesso di sviluppare quell'ecosistema regionale della ricerca e dell'innovazione, che ha portato l'Emilia-Romagna ad entrare tra le regioni innovatrici nello Scoreboard europeo e a diventare la prima regione italiana per brevetti pro capite.
Cruciale, secondo Vittoria Maria Peri della Direzione Trasferimento Tecnologico dell'ENEA, è anche l'utilizzo dei fondi della Coesione per rafforzare la capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni, trasferendo conoscenza per l'innovazione nelle PA, sfida che tra l'altro l'ente ha assunto prevedendo una struttura ad hoc all'interno della direzione Trasferimento tecnologico.
Rispetto alle inefficienze della Coesione e ai suoi cronici ritardi, in diversi hanno evidenziato i vantaggi del modello PNRR, che lo renderebbero il naturale candidato a farsi carico delle sfide che l'UE ha di fronte nel progettare le sue politiche di sviluppo. Non ha dubbi in proposito Veronica Nicotra, segretario generale Anci, secondo cui, con le dovute correzioni, il modello del PNRR dovrebbe ispirare anche la gestione dei fondi della Coesione. “L'esperienza di Anci e dei Comuni rispetto al PNRR è straordinaria”, non solo perché era “inimmaginabile prima del PNRR avere in un anno 40 miliardi assegnati” agli enti locali, ma anche perché il modello basato su target, milestone e tempi stretti valorizza la “variabile tempo” che è determinante nel programmare gli investimenti.
Lo evidenzia anche Fabrizio Penna, capo dipartimento Unità di Missione PNRR del MASE. Il passaggio da “una sfida di spesa” a “una sfida di performance” ci ha insegnato a cercare e curare un rapporto continuo con il territorio e a lavorare con scadenze temporali più stringenti, sottolinea. La riforma contenuta nel decreto Coesione varato nei giorni scorsi dal Consiglio dei Ministri, secondo Penna, andrà a valorizzare questa esperienza, andando nella direzione di “rendere osmotici PNRR e Politiche di Coesione”.
Un punto, quello della coabitazione di PNRR e Coesione, evidenziato anche da Vito Grassi, presidente del Consiglio delle Rappresentanze Regionali e per le Politiche di Coesione Territoriale di Confindustria, secondo cui è fuor di dubbio che la Politica di Coesione stia ottenendo dei risultati - con più di 4,4 milioni di imprese sostenute, 370 mila posti di lavoro creati e ogni euro investito che genererà oltre 3 euro di Pil aggiuntivo entro il 2043 - e che i due sistemi, il PNRR e la Coesione, “debbano parlarsi tra loro”.
Da escludere però, secondo il direttore generale di Svimez, Luca Bianchi, ogni ipotesi di ritenere esaurito il tema della Coesione con il solo PNRR. Al di là dell'obiettivo “probabilmente già mancato” di assicurare la coesione attraverso la quota del 40% dei fondi al Sud, l'enfasi sul mutamento di modello, dalla rendicontazione della spesa alla performance, maschera che il motore che muove la macchina, e che ha determinato anche la rimodulazione del Piano, è quella di spendere nei tempi dovuti, che significa spendere più velocemente, ma non necessariamente “ciò che serve di più”, ad esempio utilizzando il meccanismo a tiraggio rapido dei crediti d'imposta che finiscono per sostenere le imprese più forti.
Per approfondire: Svimez, con i crediti di imposta quota Sud a rischio
La suggestione è allora quella di “recuperare alcuni principi fondanti della Coesione e riattualizzarli sulla base dell'esperienza del RRF”, perché – evidenzia Bianchi - “da un lato la coesione è troppo importante per stare solo nella Politica di Coesione, dall'altro la Politica di Coesione è troppo piccola per affrontare da sola il tema della coesione”.